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IL CASO MORO

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ROBERTOLe drammatiche vicende del rapimento e dell’assassinio di Aldo Moro, le ricostruzioni, le interpretazioni e i punti di vista su di esse nei film italiani dei decenni successivi. 

FIRMA LEOMBRONIROBERTOIl fallimento del movimento del Settantasette è alla base del passaggio alla lotta armata di una minoranza estremista che contribuisce a rafforzare le organizzazioni del “terrorismo rosso”. Nel 1978, negli stessi giorni in cui il “governo di solidarietà nazionale”, appoggiato anche dai comunisti, riceve la fiducia del Parlamento, le Brigate Rosse mettono in atto il rapimento e l’assassinio di Aldo Moro. Lo statista è sequestrato, il 16 marzo, in Via Fani, mentre la sua scorta viene massacrata. Tenuto prigioniero per cinquantacinque giorni in un appartamento in Via Montalcini, al centro di Roma, Moro è sottoposto a lunghi interrogatori, con l’intenzione dei rapitori di estorcergli clamorose rivelazioni. Di fronte alla vicenda, il fronte politico italiano si divide: la DC e il PCI sono per il rifiuto di ogni compromesso con le BR. Il PSI, al contrario, propone la linea della trattativa, per ragioni umanitarie. A fronte del prevalere della prima posizione, Moro sarà ucciso. Il suo cadavere sarà ritrovato il 9 maggio, nel bagagliaio di una Renault, in Via Caetani, a pochi passi dalle sedi nazionali della DC e del PCI. I suoi rapitori (tra i quali Mario Moretti, arrestato nel 1981) saranno processati e condannati all’ergastolo.
Alla tragica vicenda sono dedicati tre film, usciti tra il 1986 e il 2003. Il primo di essi è Il caso Moro di Giuseppe Ferrara, ispirato al libro I giorni dell’ira, dello scrittore americano Robert Katz, in cui regista e scrittore si mostrano poco convinti della versione ufficiale dell’evento, e delle sentenze che attribuiscono la totale responsabilità dell’omicidio all’estremismo ideologico delle Brigate Rosse, credendo, piuttosto, a un complotto internazionale, volto a bloccare il processo, avviato da Moro, volto ad accelerare il coinvolgimento del PCI nell’area di governo. Tale tesi si collega a un giudizio più generale sugli “anni di piombo”, interpretati alla stregua di una consapevole volontà di bloccare la spinta riformatrice determinata dalle lotte del 1968-69, e confermata dall’avanzata elettorale del PCI nel 1975-76. Essa sembra, inoltre, rafforzata dalle numerose perplessità sollevate dalle zone d’ombra che circondano la vicenda: il mistero della scomparsa delle borse che Moro portava con sé al momento del rapimento; oppure la superficiale ispezione dell’appartamento di via Gradoli, dove era stata segnalata la presenza dei brigatisti. I meriti del film vanno rilevati soprattutto nel racconto della vicenda umana del protagonista, dei momenti della sua sofferenza, dell’inutile sforzo della famiglia nel tentativo di salvargli la vita. Altrettanto efficace risulta il richiamo alla sua disperata richiesta di aiuto, attraverso le lettere inviate a Paolo VI, al leader della DC, Benigno Zaccagnini, e a quello del PSI, Bettino Craxi. Come pure alla necessità di combattere su due fronti: quello contro i rapitori, ma anche quello contro il suo partito, che sembra averlo abbandonato, trasformandolo in vittima sacrificale, in nome della fermezza nei confronti delle BR. Una convinzione che spingerà Moro a chiedere esplicitamente che ai suoi funerali non partecipino autorità dello Stato o uomini di partito, ma solo i “pochi” che gli hanno “veramente voluto bene”.
Il secondo film, che si occupa del caso, è Buongiorno, notte, diretto nel 2003 da Marco Bellocchio. Il titolo si ispira a un componimento della poetessa BUONGIORNO NOTTEamericana dell’Ottocento, Emily Dickinson, mentre la trama è ripresa liberamente dalle memorie della brigatista Annalaura Braghetti. Bellocchio incentra la narrazione sul punto di vista dei sequestratori, tentando di ricostruire la loro logica, soffermandosi, in particolare, sulla loro fanatica fiducia in una causa politica, anteposta a qualsiasi considerazione della vita umana. Ma, al tempo stesso, il film ci propone un punto di vista “al femminile” (quello della protagonista, Chiara), interrogandosi pure sulla giustezza o meno della politica della fermezza, e immaginando possibili scenari alternativi rispetto a quelli realizzati. Nel finale, in particolare, prevale una proiezione onirica della ragazza, nel corso della quale Moro, liberato alla fine della propria reclusione, saluta la notte e se ne torna a casa. Il messaggio pare di estrema chiarezza: quando le contraddizioni nell’azione raggiungono un insopportabile livello di saturazione, non resta che rifugiarsi nel sogno.
Nello stesso anno 2003, esce Piazza delle Cinque Lune, un film realizzato da Renzo Martinelli, ulteriore ricostruzione fantasiosa del “caso Moro”. In esso prevale l’interpretazione della vicenda incentrata su presunte connivenze tra mafia politica e servizi segreti italiani e americani, attraverso la quale il regista si propone di rivelare verità scomode. Piazza delle Cinque Lune si propone, in particolare, di scavare a fondo sulla realtà della Democrazia Cristiana, sul “compromesso storico”, sulla figura dello statista assassinato, ma anche sui tanti interrogativi aperti, sulle presunte menzogne, sulle discutibili versioni dei brigatisti, sulle responsabilità nazionali e internazionali della vicenda. In maniera esplicita, il regista riprende la tesi secondo la quale il delitto Moro sarebbe stato deciso da un complotto dei servizi segreti e della CIA, al fine di impedire l’ingresso nel governo italiano del più grande partito comunista dell’Occidente. Di tale disegno Mario Moretti (del quale si ipotizza un legame con i servizi della CIA) e le Brigate Rosse costituirebbero un semplice strumento comprimario. Si tratta, sostanzialmente, della stessa tesi espressa nel libro di Sergio Flamigni (ex senatore del PCI, che ha anche fatto parte della commissione d’inchiesta sul caso Moro), La tela del ragno (1988), un celebre pamphlet che ha rimesso in discussione molti elementi emersi dai processi, e a cui si è ispirato il regista nell’immagine della ragnatela che compare alla fine del film.
Il clima di delusione e riflusso, indotto dalla deriva terroristica nella generazione contestataria, è ben messo in luce in Maledetti vi amerò (1979), film di esordio di Marco Tullio Giordana, il primo a superare i tabù che avevano fino ad allora coperto gli ultimi dieci anni della nostra storia, e a interrogarsi, attraverso un’approfondita analisi introspettiva, sulla generazione del Sessantotto. Ne viene fuori il ritratto di un ribelle deluso, che non si ritrova più nel mondo che lo circonda, con l’ombra del terrorismo incombente. Il riferimento al contesto politico ha ovviamente provocato un vivace dibattito sull’Italia post-sessantottina, ma anche sulla figura di Moro e sulla crisi delle illusioni di un’intera generazione. Ma, al di là dell’amarezza e della disperazione che da esso traspaiono, Maledetti vi amerò si caratterizza per una buona dose di sarcasmo e ironia, ben presenti in particolare nella superba recitazione dell’attore Flavio Bucci.