di ROBERTO LEOMBRONI
A fronte dell’arretratezza del Meridione, il periodo a cavallo tra gli anni Cinquanta e i Sessanta vede un crescente esodo dal sud al nord dell’Italia, e la crescita di un’intensa urbanizzazione. Entrambi si svolgono in modo caotico, accompagnati da notevoli problemi. L’inserimento degli immigrati meridionali nelle grandi città industriali non è indolore e pone in evidenza il divario economico e culturale fra le due metà del Paese.
Tra i film che hanno indagato il fenomeno dell’emigrazione interna, il più significativo è senz’altro Rocco e i suoi fratelli (1960), di Luchino Visconti, l’opera che segna il punto di arrivo della fase neorealista del regista. In esso, infatti, per l’ultima volta, nel pieno dei conflitti ideologici e politici dell’Italia dei primi anni Sessanta, Visconti affronta una problematica contemporanea, ricorrendo a protagonisti popolari, e attribuendo crescente importanza ai temi del tempo e della memoria. La storia è quella di una povera famiglia lucana, composta dalla madre vedova e da quattro figli, che, alla metà degli anni Cinquanta, emigra a Milano per raggiungere un quinto figlio. Questi, trasferitosi già da tempo nel capoluogo lombardo, è quasi completamente integrato nella realtà settentrionale, e rappresenta il ponte ideale che traghetta la famiglia dal passato al presente. Nella metropoli, il gruppo famigliare tenta invano di salvaguardare la propria unità interna. In realtà, in seguito alla graduale integrazione nella realtà milanese, investita in pieno dal boom economico, i legami della famiglia con la realtà meridionale si sfilacciano, ed essa conosce un inesorabile processo di disgregazione, che raggiunge il culmine nel momento in cui Simone (la “mela marcia”) aggredisce violentemente il mite fratello Rocco, a causa dell’amore che entrambi nutrono nei confronti di una prostituta. Quest’ultima, additata dalla vedova come responsabile dell’iniziale corruzione della famiglia, finirà assassinata all’Idroscalo dallo stesso Simone. Subito dopo, un altro fratello, Ciro troverà il coraggio necessario per denunciare Simone, spezzando in tal modo, irrimediabilmente, l’unità della famiglia.
Il film di Visconti è influenzato da evidenti reminiscenze culturali e letterarie: dal ciclo di Giuseppe e i suoi fratelli, di Thomas Mann, a L’idiota, di Dostoevskij ai racconti de Il ponte della Ghisolfa (1958) dello scrittore milanese Giovanni Testori, da cui è tratto l’episodio del sanguinoso scontro tra Simone e Rocco. Il racconto è strutturato attraverso una significativa rete di opposizioni: da quella, originaria, tra Nord e Sud, a quelle tra città e campagna, tra unità e disgregazione della famiglia (che avanza di pari passo con l’integrazione nella città), tra passività sociale e lotta politica, tra una morale di stampo tribale e i nuovi comportamenti indotti dall’industrializzazione e dall’urbanizzazione. All’interno di tale nucleo, si innesta la questione meridionale (lo stesso nome Rocco è scelto dal regista in omaggio allo scrittore meridionalista lucano Rocco Scotellaro), letta alla luce dell’interpretazione gramsciana dello sfruttamento del sud, strettamente intrecciata all’ambiente sociale milanese, e in particolare allo squallido micro-mondo del pugilato. In tale contesto, si snoda l’amara riflessione, da parte di un regista lombardo che adotta il punto di vista degli immigrati, attorno al divario tra lo sviluppo industriale del Nord e la miseria di un Mezzogiorno che non beneficia dei frutti del “miracolo economico”, e continua a pagare il proprio debito, in termini di arretratezza ed emigrazione. Il contatto con la realtà settentrionale determina problemi di varia natura, a partire da quelli di ordine comunicativo legati al linguaggio. Ma, soprattutto, esso provoca, nei vari membri della famiglia meridionale, effetti diversi e contrastanti. Ciro, pur privo di una forte personalità drammatica, appare come il personaggio “positivo” del film, l’interprete più convincente del punto di vista ideologico del regista: attraverso la vita di fabbrica, infatti, egli acquista una coscienza di classe (fenomeno in crescita nelle fabbriche dell’Italia settentrionale dei primi anni Sessanta), e una cultura piccolo-borghese della responsabilità e dei diritti individuali, che cozza nettamente contro la concezione monolitica della famiglia, fatta propria in particolare da Rocco e dalla madre. Gli altri fratelli vivono invece una condizione di emarginazione, all’interno della quale si scatenano passioni violente e arcaiche. Nel finale tragico, la logica inesorabile della civiltà industriale ha ragione di un mondo (molto simile a quello dei Malavoglia e, più in generale, dei “vinti” di Giovanni Verga), dominato da una morale atavica, che aveva resistito per secoli, dissolvendolo completamente. La madre, figura centrale del film, non può che assistere, impotente, alla rovina della propria famiglia, fino ad allora unita da arcaici vincoli di solidarietà tra i fratelli: una rovina che lei accetta come una punizione divina nei confronti del “peccato” costituito dall’ambizione di promuovere l’ascesa sociale dei figli, sradicati dalla loro terra, contro la volontà del marito defunto, e di portarli in una realtà totalmente diversa. In essa, il relativo livello di benessere economico, pur faticosamente raggiunto dalla famiglia, non costituisce fonte di godimento, in quanto privo del necessario sostegno che può essere garantito solo dal rispetto dei suoi arcaici valori morali. Frutto di un meticoloso lavoro di documentazione, il film di Visconti costituisce una preziosa fonte, soprattutto in relazione al paesaggio milanese di quegli anni: dalla Stazione al Duomo; dai quartieri di Lambrate e del Giambellino alla miriade di case in costruzione nella sterminata periferia della città; dallo stadio Vigorelli alle rive dell’Idroscalo. Ma esso occupa un ruolo di primo piano anche nella storia della censura cinematografica in Italia. Nonostante il successo strepitoso ottenuto, con oltre dieci milioni di presenze, Rocco e i suoi fratelli, subisce, infatti, pesanti attacchi da parte del pubblico benpensante e conservatore, e di consistenti settori delle istituzioni politiche, culturali e giuridiche. In particolare, Carmelo Spagnuolo, Procuratore Capo della Repubblica presso il Tribunale di Milano, ergendosi a difensore della morale pubblica, del sentimento del pudore e dei valori della famiglia, impone la soppressione e l’oscuramento di alcune scene del film, pena il suo sequestro, sollevando un vero e proprio fatto di cronaca. Forte e decisa è la mobilitazione dell’opinione pubblica progressista, contro quello che appare un vero e proprio attentato alla libertà di espressione, a testimonianza della durezza dello scontro che, all’inizio del nuovo decennio, contrappone le forze progressiste alle resistenze conservatrici ad esse contrapposte dai nostalgici del declinante centrismo.