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LA SPORCA GUERRA/2

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ROBERTOLa guerra del Vietnam raccontata nei suoi risvolti più disumani dal film Platoon, che mostra anche la crescente rivolta morale che la avversò. La trasformazione degli uomini in macchine di morte e il delirio generale in Full Metal Jacket.

     

             di ROBERTO LEOMBRONI     

                                                      

Durante la presidenza di Lyndon Johnson (1963-69), il successore di John Fitzgerald Kennedy, matura la decisione americana di un intervento diretto in Indocina. Nel marzo del 1965, i marines sbarcano a Da Nang, nei pressi del confine tra i due Vietnam. L’anno successivo, hanno inizio i bombardamenti sul territorio nordvietnamita da parte dei B-52. Ma, nel corso della guerra, gli Stati Uniti si trovano immediatamente a fronteggiare due difficoltà pressoché insormontabili. Da una parte si rivela sempre più arduo aver ragione di guerriglieri che si muovono “come un pesce nell’acqua” (secondo la famosa affermazione del presidente cinese Mao Tse-tung), in quanto godono di un appoggio totale da parte della popolazione. Dall’altra, la “sporca guerra” (come viene definita dai suoi oppositori) divide profondamente l’opinione pubblica americana, a cui ogni sera la televisione restituisce le drammatiche immagini del conflitto e provoca ampi fenomeni di malessere, soprattutto tra i giovani, divisi tra coloro che sperimentano direttamente il trauma della guerra e coloro che si rifiutano di andare a combattere. Particolarmente evidente è il contrasto tra le promesse governative di vittoria e le immagini dei cadaveri dei ragazzi rimpatriati nei sacchi di plastica sigillati (body bags). La protesta giovanile prende gradualmente quota e si esprime nella musica di Bob Dylan e Joan Baez, nelle numerose e imponenti manifestazioni di piazza e in una diffusa renitenza alla leva.
Approfittando delle difficoltà americane, i vietcong (guerriglieri comunisti) sferrano, il 30 gennaio del 1968, la grande offensiva del Tet (il Capodanno buddista), che manda in frantumi le illusioni del comandante in capo delle truppe americane, il generale William Westmoreland, convinto di “intravedere una luce in fondo al tunnel”. Nella primavera del 1968, sembra aprirsi uno spiraglio di pace, in seguito all’accordo tra Stati Uniti e Vietnam del Nord, che porta all’inizio delle trattative di Parigi. La serie degli insuccessi militari, nonostante il crescente impiego di armi chimiche, come il napalm (una gelatina incendiaria che fa terra bruciata nella giungla sud-vietnamita), e la crescente ostilità interna e internazionale contro la guerra, spingono il nuovo presidente Richard Nixon, eletto il 5 novembre del 1968, a imboccare la strada della “vietnamizzazione” del conflitto, ovvero di un crescente PLATOONdisimpegno americano. È un duro colpo per l’immagine trionfalistica che aveva sin qui caratterizzato gli Stati Uniti, particolarmente avvertito dalle nuove generazioni, sempre più in rotta con gli adulti e sempre meno orgogliose di sentirsi americane.
La guerra nel Vietnam contribuisce, dunque, ad accentuare gli orientamenti pacifisti, già emersi durante la crisi di Cuba, in gran parte della gioventù statunitense. Dello stato d’animo di tanti ragazzi, partiti con entusiasmo per la guerra e ben presto disillusi dalle sue vere motivazioni, si fa carico una lunga stagione della cinematografia americana, durata circa un ventennio (dai primi anni Settanta ai primi anni Novanta). Il motivo del carattere “infernale” e da incubo della guerra è particolarmente presente in Platoon (1986) di Oliver Stone, un film ispirato alle esperienze del regista sul campo di battaglia. Egli stesso racconta, in una serie di lettere indirizzate alla nonna, la propria storia di giovane soldato di diciannove anni (Chris, nel film) il quale, partito volontario per il Vietnam nel 1967, nell’ingenua convinzione di assolvere ai propri doveri di buon cittadino, combattendo per il suo paese, si trova immediatamente a sperimentare i traumi di cui la guerra è portatrice. In particolare, egli entra in diretto contatto con le atroci crudeltà messe in atto da un sergente psicopatico nei confronti dei civili vietnamiti (è evidente l’allusione alla distruzione del villaggio di My Lay, avvenuta il 16 marzo 1968). Il soldato, come in un romanzo di formazione, matura, a stretto contatto con gli eventi, la convinzione che l’inferno della guerra annichilisca di fatto ogni motivazione ideale, ad esclusivo vantaggio degli istinti sadici e omicidi. Il film di Stone è accolto in patria, con un certo senso di liberazione, da parte di un pubblico che ormai, dopo un buon decennio dalla conclusione del conflitto, ha assorbito e metabolizzato la sconfitta, subita in Vietnam nel 1975. Si rafforza la consapevolezza che quella proposta da Stone sia finalmente la “vera” guerra, raccontata da chi l’ha combattuta, nei suoi risvolti più disumani, sgradevoli agli occhi di tanti superstiti, e di chi avrebbe preferito insistere con la retorica bellicista (ciò spiega le difficoltà incontrate dal regista, che ha potuto realizzare il film solo grazie a capitali inglesi): una guerra così crudele e irragionevole da scatenare un odio reciproco tra gli stessi suoi combattenti. In Platoon, si rivelano due volti contrapposti dell’America: quello “buono”, di chi è convinto di combattere realmente una guerra in difesa della libertà e della democrazia, e quello cinico e spregiudicato di chi la concepisce unicamente come strumento di potere e di imposizione della propria volontà. Qui si palesa (in particolare nel personaggio del soldato) una caratteristica peculiare del pacifismo americano (e, più in generale, dell’intero movimento di contestazione negli Stati Uniti): manca una precisa presa di coscienza politica e ideologica (particolarmente forte, al contrario, nel Sessantotto europeo) circa  la natura “imperialistica” dell’intervento americano nel Vietnam: quella dei giovani statunitensi si rivela piuttosto come una forma di ribellione morale e istintiva nei confronti di una guerra che appare sempre più crudele e insensata. In tale contesto, Platoon rispecchia la disillusione collettiva di un’intera generazione di giovani (tra i quali lo stesso regista) passati da un’iniziale adesione alle motivazioni della guerra a una radicale opposizione nei suoi confronti, sempre più convinti che il liberalismo e le grandi idealità di cui gli Stati Uniti si erano finora ritenuti portatori si siano infranti insieme al “sogno” kennediano. Il messaggio etico del film spiega anche la scelta, operata da Stone, di servirsi dello stile tradizionale del genere di guerra Full Metal Jackethollywoodiano e della sua tipologia di personaggi per rovesciarne i contenuti ideali, sostituendo all’esaltazione dell’eroismo e del valore militare (particolarmente accentuata nel “cinema classico” americano) la rivelazione della vera natura devastante e terrificante dell’evento bellico.

Tra i film più crudi e impietosi sulla guerra nel Vietnam, e sul trauma vissuto da numerosi giovani soldati in essa impegnati, si colloca anche Full Metal Jacket (1987) di Stanley Kubrick. Esso è diviso in due parti, relative rispettivamente all’addestramento e alla guerra.  Le sequenze iniziali si svolgono nel campo militare di Parris Island, in South Carolina, dove, nel 1968, diciassette reclute vengono sottoposte per otto settimane a estenuanti esercitazioni, e duramente istruite da un autoritario e fanatico sergente (interpretato da un autentico sottufficiale istruttore dei marines) a trasformarsi in vere e proprie macchine di morte. Ciò avviene attraverso varie forme di sopruso fisico e psicologico, e con l’imposizione di assurdi comportamenti coercitivi. Una recluta particolarmente fragile, un ragazzo sprezzantemente chiamato dal sergente “palla di lardo”, a causa della sua conformazione fisica, non regge e, dopo aver subito ogni sorta di umiliazioni, si suicida, non prima però di aver ammazzato il crudele istruttore. Le altre reclute sono inviate in Vietnam, dove entrano in contatto diretto con le atrocità della guerra, che tuttavia non producono in essi disgusto nei suoi confronti: dopo l’attacco a Huè (l’antica capitale imperiale) e la carneficina che lo accompagna, infatti, i soldati, in una notte apocalittica, illuminata solo dai bagliori degli incendi, marciano felici verso l’accampamento, intonando la canzoncina del club di Topolino. Nel film di Kubrick, infatti, ispirato al romanzo The Short Timers (1979) di Gustav Hasford, non è la guerra in sé a sollevare la critica del regista: ciò che lo interessa maggiormente è, attraverso il ricorso a una buona dose di umor nero, mettere il dito sulla piaga della violenza dell’istituzione militare, in particolare dell’assurdo sistema di addestramento dei marines (il corpo militare più impegnato nei combattimenti nel sud-est asiatico), ispirato da una folle psicologia. Accompagnato da una colonna sonora costituita da una musica elettronica fatta di accordi metallici e da canzonette degli anni Sessanta, in significativo e ironico contrasto con gli scenari da incubo, il paesaggio vietnamita, ricostruito in studi londinesi, è utilizzato dal regista per riproporre una pessimistica riflessione circa l’illusione di un inarrestabile progresso della società. L’umanità, al contrario, secondo Kubrick, è ancora ferma al suo stadio primitivo, e la guerra costituisce l’inevitabile scenario nel quale si manifesta l’istinto di aggressività connaturato alla natura umana: una violenza che è pura follia, destinata a generare altra violenza e altra follia. E’ infine da rilevare, nel film, uno schema ternario, tipico del classico cinema di guerra (addestramento-battesimo del fuoco-“maturazione” del protagonista in vero combattente), che viene tuttavia applicato all’interno di un contesto nel quale non prevalgono (come, d’altronde, in Platoon) i  valori etici della tradizione bellicista (solidarietà, patriottismo, eroismo) bensì un delirio generale, in cui gli individui sono annientati da un mostruoso apparato autodistruttivo.

 

La foto in alto a destra è di manhhai (https://www.flickr.com/photos/13476480@N07/48928876237); (CC BY 2.0). 
Quella in basso a sinistra è di Vdo Vault (https://www.flickr.com/photos/vdo_vault/301889674/in/photostream/); (CC BY-NC-ND 2.0).  

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