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LA BOTTEGA DEL SILENZIO

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falegname“Quel santuario del lavoro e del rigore, in cui la facilità, le vacanze e il fascismo non erano mai entrati”. Un brano di Antonino Di Giorgio. Storia di un artigiano che aveva fiducia nella storia.

 

Il mastro di Carmine era stato dei pochi che, nel dopoguerra, avevano costituito la camera del lavoro; poi, col trionfo del fascismo, aveva lasciato la militanza politica e si era messo in disparte; non possedeva la camicia nera, stava lontano dalle manifestazioni del regime, ma neppure protestava. In quegli anni in cui l’ossequio per i notabili, già naturalmente diffuso, era stato prescritto, non si cavava il cappello di fronte a nessuno; preso il proposito di non salutare le autorità e i fascisti, a mano a mano che il consenso al fascismo cresceva aveva finito col non salutare più nessuno; praticamente, per la delusione della sconfitta, si era ritirato pure dalla vita civile, si teneva tra casa e bottega, quattro volte al giorno attraversava il paese sui percorsi fuori mano, silenzioso e greve come il cruccio che portava; non ne faceva parola ma era fiducioso che la storia presto o tardi si sarebbe incaricata di parlare anche per lui. Per i fascisti era la immagine stessa della soccombenza della classe operaia, della rinuncia cui erano stati costretti gli spiantati che avevano voluto alzare la testa; di ciò erano paghi e poiché era figura che incuteva soggezione non lo molestavano. Gli apprendisti che si avvicendavano nella sua bottega – era ebanista finissimo e prodigo d’insegnamento – erano, qual più qual meno, tutti fascisti, e lui li lasciava fare i fascisti; ma bastava il suo silenzio a smontare i loro entusiasmi,  a rendere imbarazzanti le loro divise, a insinuare il dubbio sulla giustezza delle guerre che l’Italia intraprendeva.
Uno di quei giorni di luglio Franco era andato nella sua bottega per  richiedere, su incarico del padre, una piccola riparazione: il tiretto di un artistico canterano fatto da quel mastro trent’anni prima intoppava e non scorreva più nelle guide. Aveva portato il tiretto con sé e poiché la riparazione poteva essere fatta subito fu invitato ad aspettare, in piedi, dato che nel laboratorio non c’era una sedia né alcunché che le assomigliasse. Ma la stazione eretta, il disprezzo della fiacchezza, l’intolleranza della negligenza erano consustanziali al luogo.  Oltre a Carmine, c’erano altri due lavoranti, anch’essi a lui noti essendo poco più che ragazzi; Carmine, alzando la testa e le sopracciglia, intimò di non rivolgergli la parola; gli altri due finsero di non accorgersi della sua presenza, la quale portava lì dentro un'idea di sregolatezza. L’ampio e ordinato terraneo, odoroso di legnami denudati e sagomati, sembrava l’accademia di Euclide e i quattro lavoravano con gesti misurati, rispettosi della materia che maneggiavano. Il mastro osservò il tiretto in ogni fibra e Franco, che secondo le istruzioni ricevute voleva mostrare le superfici difettose, fu tacitato con un gesto. Difetto e rimedio erano evidenti, piuttosto il mastro si domandava se trent’anni prima aveva commesso qualche errore di esecuzione; dopo qualche dubbio si assolse, chiamò a sé Carmine e gli mostrò le zone su cui intervenire, con tono disteso e quasi divertito disse a Franco: “Il legno è materia viva, può sempre fare qualche scherzo”. Franco però ormai era intimidito, non riusciva a tenere un contegno, si sentiva fuori posto a starsene, con le mani nelle mani e con la mente altrove, in quel santuario del lavoro e del rigore, in cui la facilità, le vacanze e il fascismo non erano mai entrati.
(Da: Antonino Di Giorgio, “un’estate in bicicletta”, Rocco Carabba, Lanciano, 1992, pagine 87-89).


La foto La bottega del falegname, proviene dall'archivio del Comune di Budrio (Bo), tramite cercanelcassetto.it