di NANDO CIANCI
La pandemia ci ha riversato in casa un complesso di attività che eravamo abituati a disseminare in spazi diversi: scuola, lavoro, esercizio fisico, relax, spettacoli, relazioni con amici e parenti. Non di rado questo spazio si rivela angusto: per consentire di esercitare contemporaneamente la propria attività a 4, 5 o più persone ci vorrebbero mega appartamenti. E, in molti casi occorrerebbe una dotazione tecnologica che supera la disponibilità di molte famiglie: un computer per ognuno dei figli che studia e per ognuno dei genitori che lavora (o cerca lavoro) da casa. Se a ciò aggiungiamo la difficoltà psicologica dello stare compressi in poco spazio, si capisce quanti sacrifici i cittadini si stiano sobbarcando in questo momento critico. Sacrifici che diventano ancor meno sopportabili per quelle famiglie senza lavoro o con lavori che non possono essere svolti per via telematica. Con fonti di reddito prosciugate da un giorno all’altro.
Uno degli aspetti più difficili da gestire, in questo ambito, è stato quello del trasferimento di tutta l’attività scolastiche in casa. Difficile per le famiglie e difficile per le istituzioni scolastiche,
Da secoli la scuola, per funzionare, ha bisogno di uno spazio comune, in cui ritrovarsi tutte le mattine, e di un tempo scandito ora per ora con un orologio condiviso. Nessuna meraviglia, perciò, che essa abbia subito un disorientamento quando le necessità dell’isolamento sociale hanno divelto questi due cardini fondamentali: non più comunicazioni e interrelazioni in brulicanti alveari umani che si svegliano e si acquetano in orari certi, ma ricerca di contatti e di operatività didattica tra gli spazi impalpabili dell’etere. Si è, così, cercato di correre ai ripari con il ricreare l’ambiente classe in modo virtuale e con la pratica della cosiddetta didattica a distanza. E qui sono nati i problemi, per capire i quali occorre fare un passo indietro.Da un po’ di anni a questa parte, nella scuola si sono andate introducendo nuove tecnologie didattiche, che in questi momenti dovrebbero mostrare la loro utilità. Ma lo si è fatto con limiti e contraddizioni: spesso si è esaltato il valore tecnico dello strumento, pensando che l’innovazione sia sempre e comunque, in sé, un valore positivo. Non si sono analizzati a sufficienza, invece, gli effetti complessi che i nuovi strumenti hanno sullo sviluppo di tutte le facoltà dei ragazzi e che spaziano in vari campi: neurologico, cognitivo, psicologico, pedagogico, formazione del senso civico. Non si è lavorato a sufficienza sull’incontro dei linguaggi diversi portati da generazioni diverse, immigrati digitali in cattedra e nativi digitali tra i banchi. Né si è riflettuto a fondo su come la plurimillenaria elaborazione letteraria, artistica, filosofica e scientifica di cui la nostra cultura è portatrice possa vivere in un presente caratterizzato così tecnologicamente. Nonostante l’enfasi che ha accompagnato ogni discorso sull’innovazione, infine, le dotazioni di strumenti a disposizione delle scuole sono restate insufficienti.
Si possono ben comprendere, quindi, le difficoltà dei docenti e le resistenze, consce o inconsce, di parte di essi a muoversi oggi nella didattica a distanza. Di qui, anche, le tensioni all’interno dello stesso corpo docente tra chi si entusiasma alle novità e chi vi resiste o, comunque, le vede con occhio critico.
E così, nella situazione indotta dalla pandemia, a carenze e ritardi hanno dovuto supplire, come spesso accade, la buona volontà e l’inventiva di molti docenti e non pochi dirigenti. Con risultati disparati, anche all’interno dello stesso istituto. C’è chi è riuscito ad interagire con gli studenti e chi se ne è uscito assegnando periodicamente compiti online (il che è meglio che recidere il rapporto allievo-docente, ma rappresenta una soluzione quasi del tutto priva di valore educativo). Non è mancato, infine, chi si è trincerato dietro alibi pseudo sindacali per abbandonarsi ad una beata nullafacenza.
Quando questa emergenza si sarà esaurita, la scuola dovrà interrogarsi su quel che ha combinato in questo periodo e su come riprendere con lena la sua strada. Si faranno, naturalmente, bilanci sull’esperienza della cosiddetta didattica a distanza. Non mancheranno gli entusiasti che invocheranno per essa un posto permanente fra le attività scolastica. Altri tireranno un sospiro di sollievo nel ritrovare le usate aule in cui riunirsi quotidianamente con gli allievi e nel tornare a sentire il rassicurante suono della campanella.Tutti esibiranno le loro buone ragioni, ma bisognerà stare attenti a non trasformare l’emergenza in normalità. La didattica a distanza dovrà tornare ad essere solo uno dei tanti strumenti disponibili, ma non il più importante, perché senza la relazione umana allievo-docente, fatta anche di compresenza fisica, di toni di voce, di sguardi negli occhi, di linguaggio del corpo e così via, non si dà educazione. Si acquisisce qualche utile conoscenza, ma ciò non esaurisce la formazione complessiva dell’uomo e del cittadino. Non si dovrà però dimenticare che, in questa fase della storia del mondo, le emergenze sono sempre dietro la porta e, dunque, occorrerà pensare ad una scuola che sia capace di svolgere a pieno la sua funzione tanto nella normalità che nella eccezionalità di situazioni come quella che stiamo vivendo.
Serviranno, per ciò, investimenti straordinari per garantire la sicurezza di alunni, docenti, personale e famiglie, tenendo conto che il concetto di sicurezza, dopo questa pandemia, va rivisto e non può riguardare solo la pur necessaria stabilità degli edifici. Il che può rappresentare anche un’occasione per ripensare a come adeguare all’oggi l’organizzazione degli spazi della scuola.
Contemporaneamente occorrerà affrontare con serietà tutti i problemi posti dall’avvento delle nuove tecnologie, che non riguardano solo la capacità “tecnica” di utilizzarle, ma anche le conseguenze del loro impatto con la formazione di personalità libere, creative e solidali, che la scuola deve assicurare. E bisognerà comprendere come questa pandemia abbia riportato in primo piano il dibattito sulla scienza e sul come essa non possa essere disgiunta dal cammino complessivo delle culture elaborate dall’uomo. Finendola, in altre parole, con il dualismo tra umanesimo e scienza e ricostituendo nella scuola la loro unità. Tutto ciò implicherebbe, naturalmente, un grande piano di formazione e aggiornamento dei docenti.
Infine, i giorni della pandemia ci hanno mostrato come la solidarietà tra le persone, le comunità, le nazioni e i continenti sia l’unico motore che può salvare l’umanità. E, dunque, la scuola dovrà lavorare molto di più alla costruzione di un forte senso civico e della pratica democratica della cittadinanza. Cosa che aiuta a migliorare, e di molto, le condizioni di vita anche in tempi di “normalità”.
(Questo articolo è stato in buona
parte pubblicato sul quotidiano
il Centro del 19 aprile 2020)