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 NewsLetter 

Blog collettivo fondato e coordinato da Nando Cianci - Anno VIII   -  2024

LA VITA OLTRE IL PONTE

calvino

 I canti che hanno accompagnato e seguito la Resistenza. Da Italo Calvino ai gruppi rock e pop.

         di ROBERTO LEOMBRONI

ROBERTOEnorme è l’importanza del canto nell’ambito dell’esperienza resistenziale. Il comandante partigiano Cino Moscatelli affermava esplicitamente, in una sua testimonianza, che esso ha costituito “un efficace strumento di propaganda e di organizzazione, di disciplina e di educazione collettiva”. In quanto “per mezzo di rime e ritmi si orientavano politicamente i partigiani, si impartivano direttive”. Il patrimonio di canti della Resistenza è imponente, pur se scarsamente originale. Gran parte delle canzoni partigiane infatti nascevano dalla riproposizione di inni pre-fascisti appartenenti alla tradizione del movimento operaio, socialista e anarchico. Da Bandiera rossa all’Internazionale, dall’Inno dei lavoratori agli Stornelli dell’esilio di Pietro Gori. Oppure di canti patriottici, quali l’Inno di Mameli e l’Inno di Garibaldi. Preferiti, questi ultimi da quelle formazioni militari partigiane che concepivano la Resistenza come un “secondo Risorgimento”. O ancora dal riadattamento (talvolta dalla parodia) di vecchi motivi della canzone politica (anche fascista) o leggera. Una delle più celebri canzoni partigiane, Pietà l’è morta, ad esempio (ma il discorso vale per tanti altri canti della Resistenza), nasceva dalla rielaborazione di una canzone alpina della prima guerra mondiale. Le canzoni partigiane risentivano ovviamente della diversa collocazione politica delle varie formazioni e brigate. Anche se alcune di esse appartenevano al comune patrimonio della Resistenza e venivano cantate indifferentemente dai “garibaldini” come dai combattenti di Giustizia e Libertà, dai cattolici come dai badogliani. 
Ma accanto alle canzoni “della” Resistenza, è necessario sottolineare l’importanza, ai fini della ricerca storica, delle canzoni “sulla” Resistenza. La cui produzione è risultata piuttosto intensa a partire dalla fine degli anni ’50, arrivando fino all’inizio del nuovo millennio, e coinvolgendo indifferentemente cantautori “impegnati”, gruppi rock e pop. Al di là dei riferimenti agli anni di Salò e alla lotta di liberazione presenti in canzoni del repertorio “leggero” (si pensi a Le storie di ieri

1974, di Francesco De Gregori, e a Lugano addio, 1977, di Ivan Graziani), il rilancio della canzone partigiana ebbe inizio negli anni ‘60, grazie all’iniziativa del gruppo torinese di Cantacronache, del Nuovo Canzoniere Italiano e dell’Istituto Ernesto De Martino. E si manifestò, in particolare, nella pubblicazione di dieci album di Canti della Resistenza italiana daparte dei Dischi del Sole.
Proprio a Cantacronache si deve uno dei testi più suggestivi della canzone politica. Si tratta di Oltre il ponte (1958), scritto da Italo Calvino e musicato da Sergio Liberovici. La canzone, successivamente  reinterpretata dai Modena City Ramblers, in collaborazione con Moni Ovadia, nell’album Appunti partigiani (1995), richiamava all’attenzione, in forma poetica, le motivazioni della difficile scelta operata da tanti giovani in direzione della guerra partigiana. Composta a parecchi anni di distanza dalla fine della guerra, essa ricordava la militanza dello scrittore nella lotta di liberazione e avvertiva l’esigenza, comune all’intero movimento di Cantacronache, di trasmettere alle nuove generazioni (“con te, cara, che allora non c’eri”) i valori che avevano orientato quella scelta. Riallacciandosi a quanto aveva già affermato nel suo primo romanzo, Il sentiero Canti parigianidei nidi di ragno (1947), anch’esso dedicato alla Resistenza, Calvino, lungi dal delineare un’immagine oleografica, e sostanzialmente falsa, della figura del partigiano, sottolineava la differenza di fondo che comunque intercorreva tra la scelta di coloro che stavano “dalla parte del riscatto”, per la libertà propria e dei propri figli e per la costruzione di “un’umanità senza più rabbia, serena, in cui si possa non essere cattivi” (“tutto il bene”), e gli altri che invece combattevano per perpetuare l’”odio” e il “furore” (“tutto il male”). Tale visione “manichea” era tuttavia largamente attenuata dalla consapevolezza dei propri limiti (“non è detto che fossimo santi,/ l’eroismo non è sovrumano”). Traspare da quei versi lo spessore etico dei combattenti della guerra di liberazione. Il vero antifascismo si nutriva di spirito di giustizia. Non di vendetta. Basta scorrere un po’ della migliore letteratura resistenziale del dopoguerra. Accanto al già citato Il sentiero dei nidi di ragno, ricordiamo Uomini e no di Vittorini o I piccoli maestri di Meneghello. In essi si riflette fino in fondo lo stato d’animo di persone miti che gli eventi drammatici della guerra spingevano a imbracciare le armi per difendere la propria libertà. In loro non c’era mai compiacimento nell’uccidere un altro uomo per necessità. E ciò li rendeva eticamente superiori ai loro nemici. Il più delle volte cinici e spietati. Ciò che prevaleva, nella canzone, era comunque un inequivocabile messaggio di speranza nel futuro e un invito alla scelta consapevole di mettersi in gioco per il bene collettivo. Al contrario di tutti coloro che preferirono “stare a guardare”. 

(video)

 

 

 

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