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SESSANTOTTO E DELITTO MORO

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ROBERTOIl Sessantotto ha avuto molte facce e, perciò, sfugge alle frettolose semplificazioni. Come quella che lo vorrebbe anticamera del terrorismo.

                      di ROBERTO LEOMBRONI

 

Cinquant’anni dal Sessantotto. Quaranta dal rapimento e dall’assassinio di Aldo Moro e della sua scorta. Quanto basta a tanti scienziati della politica (o semplicemente osservatori frettolosi) per tirare arbitrarie somme. In base alle quali il secondo evento sarebbe la “naturale” conseguenza del primo. “Tutta colpa dei cattivi maestri”, insomma. Proviamo a rifletterci su.
Parto dal presupposto che si può parlare correttamente del Sessantotto (come di qualsiasi altro evento del secondo dopoguerra) solo in due casi. O se lo si è vissuto. O se lo si è studiato. Meglio ancora se ricorrono entrambe le condizioni. In quei casi è più difficile incorrere in banali e superficiali considerazioni.
Chi, per motivi anagrafici ha avuto l’opportunità di vivere entrambi gli eventi, sia pure in una realtà di provincia, ricorderà come tanti protagonisti dei cortei studenteschi e operai degli anni ’60-’70 erano gli stessi che, in quei giorni drammatici del 1978, occuparono le piazze per manifestare contro il terrorismo “rosso”. Forse potrebbe bastare a fare giustizia di tante semplificazioni. La realtà, si sa, è sempre molto complessa. E difficilmente si lascia imprigionare negli schemi.
È la generazione del Sessantotto totalmente immune da colpe? Certamente no. In molti, in quegli anni, si sono cullati alla ricerca di miti e ideologie che non hanno retto alla prova degli anni. E oggi certamente non possono “rivendicare con orgoglio” (al pari di certi reduci o nostalgici di Salò) quegli errori. Che solo la foga dei 16-20 anni poteva spiegare. Ma tutto ciò non può fungere da pretesto per “criminalizzare” o anche soltanto sminuire la portata di un movimento planetario che ha modificato in maniera radicale i modi di pensare e di vivere di un’intera generazione.
Chi ha vissuto l’esperienza di quegli anni sa che non c’è stato un solo Sessantotto. Quello del “sei politico” e degli esami di gruppo. O quello dei “marxisti-leninisti” che innalzavano il libretto rosso di Mao in ogni manifestazione. O ancora quello di chi si entusiasmava ad ogni scontro con la polizia. Sessantottini erano anche quei cattolici che, sull’esempio di don Milani e della Scuola di Barbiana, volevano vivere in maniera diversa la loro esperienza di fede e impegno civile. Come pure molti di quei giovani che, solo qualche anno prima, si erano prodigati per salvare le opere d’arte nella Firenze alluvionata (come in maniera splendida ci ha ricordato il film La meglio gioventù di Marco Tullio Giordana). E ancora quei milioni di ragazze e ragazzi che, in ogni angolo del mondo, spinti da ideali pacifisti, dall’amore per la musica, dal fascino di filosofie esotiche, protestavano contro il razzismo e la guerra. O, ispirati dalla lettura dei filosofi della Scuola di Francoforte, lottavano contro l’alienazione nel lavoro e tentavano di realizzare “qui e ora” modelli di vita più liberi e disinibiti rispetto a quelli stressanti imposti dalla società dei consumi. Per non parlare dei giovani che “oltrecortina” (da Praga a Varsavia) insorgevano contro il totalitarismo sovietico. In altri termini, vale la pena ricordare che, al di là degli eventi che “hanno fatto epoca” (da Valle Giulia al Maggio Francese) è esistito un “microsessantotto”. Vissuto in prima persona da milioni di giovani (e non solo) nei campi dell’etica e del costume. Lottando contro l’autoritarismo in famiglia, a scuola, in parrocchia… Non è pura retorica chiedersi se i successivi movimenti pacifisti, ambientalisti, femministi… sarebbero stati possibili senza quel precedente.
Quanto alla cosiddetta “violenza” del movimento, vale la pena forse ricordare che, al di là di quella verbale, e con qualche rara eccezione, la vera violenza fu quella impiegata dalle forze dell’ordine (spesso con l’aiuto dei neofascisti) contro il movimento. E a rimetterci le penne saranno quasi sempre i suoi militanti. Dall’attentato contro Rudi Dutschke in Germania al massacro di Piazza delle Tre Culture a Città del Messico. Senza dimenticare, in Italia, Avola, Battipaglia, la strage di Piazza Fontana, Pinelli… Sarà solo negli anni successivi che la violenza tenderà a penetrare nei comportamenti di alcune frange “militarizzate” dei gruppi della sinistra extraparlamentare.
Proprio la consapevolezza di tale complessità dell’evento dovrebbe portare a respingere con fastidio tutte le odiose semplificazioni (Sessantotto = anticamera del terrorismo) che degli eventi di quegli anni sono state fornite da chi ha sempre perseguito l’unico obiettivo di scongiurare qualsiasi tentazione di rimettere in discussione il “migliore dei mondi possibili”.
In un libriccino sul Sessantotto, scritto da due protagonisti di quegli anni, Erri De Luca e Angelo Bolaffi, il secondo citava lo scrittore marxista inglese Arthur Koestler e affermava:

                           «Essere attratti dalla nuova fede era, ancor oggi lo credo, un encomiabile errore. Sbagliammo per ragioni giuste (...)
               C’è un abisso tra un amante deluso e chi è incapace di amare (…) E il ’68 fu davvero tempo di grandi amori».

Poi, quegli “amori” sono finiti. La “maggioranza silenziosa” ha messo a tacere il movimento negli Usa. De Gaulle piegherà il movimento in Francia. E in Italia, qualche anno dopo, gli “anni di piombo” chiuderanno la stagione della “fantasia al potere”. Con grande sollievo di tutti coloro che hanno sempre guardato con terrore alla diffusione del pensiero critico e alla possibilità di cambiare il mondo.

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