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L'ALTRA FACCIA DELLA CONVIVENZA

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Vissute come limite alla libertà individuale, in realtà le regole ne consentono l’espressione. L’autonomia individuale e l’interdipendenza con gli altri procedono strettamente intrecciate. E richiedono un consapevole impegno etico.

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di
EIDE SPEDICATO IENGO

 

Pochi concetti, come quello di regola, sono legati ad un passato immemoriale e si propongono in veste di vocabolo plurale, prismatico, sfaccettato, ora segnalatore di categorie assolute e realtà statiche, ora propositore di cambiamenti e  trasformazioni.

Ma, perché la regola? E, soprattutto, quale la sua funzione? La risposta è insieme semplice e scontata, complessa e dilemmatica. È scontata e semplice, perché la regola è «l’altra faccia della convivenza» (G. Colombo, Sulle regole, Milano, Feltrinelli, 2010, p. 19), essendo il segno di un progetto collettivo che chiama alla necessità di un dovere comune; accompagna il passaggio da uno stato di disordine a uno di ordine; disciplina scambi, condotte, opportunità e limiti per le azioni individuali e collettive. Ed è dilemmatica e complessa perché, essendo un termine neutro, «il cui significato può variare indefinitamente in base al contenuto che [esprime]» segnala la realtà di spazi eterogenei e intrecci di bisogni e di obiettivi che non possono contare su una unità data una volta per tutte e per tutti(ibidem).

Sebbene, dunque, le regole delimitino una realtà difficile da racchiudersi in definizioni formali e unitarie, sono alla base di qualsivoglia espressione sociale (da quelle più semplici e quotidiane che regolano i rapporti fra persone a quelle che attengono l’impianto della legalità) e, diversamente da chi le ritiene un vincolo alla libertà individuale, consentono all’opposto precisamente la sua espressione. La loro presenza, tuttavia (è bene segnalarlo), non difende dalle dissidenze, dalle alterazioni, dalle sfasature di cui è costellata la società: l’ordine sociale designa, infatti, una condizione di stabilità relativa, mai assoluta e definitiva, continuamente insidiata dalle tensioni del disordine. Per dirla con Georges Balandier (Il disordine. Elogio del movimento, Bari, Dedalo, 1991), questo è sempre in azione.

Qualsiasi società, pertanto, costituisce un ordine approssimativo e corrisponde ad una costruzione di apparenze e di rappresentazioni in cui le regole, pur svolgendo un ruolo più o meno incisivo a seconda delle collettività cui si riferiscono, non possono mancare. E non possono mancare soprattutto nello scenario labirintico, dissipativo, contraddittorio dell’oggi che, avendo reso evanescenti i concetti di certezza, uniformità, radicamento, ne proiettano il significato su uno sfondo di particolare indeterminatezza e problematicità accentuando la loro specificità di concetto flessibile. Perciò, è necessario essere consapevoli del fatto che quanto più la società comporta antagonismi, disordini, conflitti, tanto più è indispensabile compensare questa sua fragilità strutturale attraverso un sistema di norme che non temono quelle riletture e quegli  adattamenti che possono permettere l’esercizio della libertà, la quale esige consapevolezza critica e tensione morale.

Essere liberi non consiste, infatti, nel fare ciò che si vuole, quanto nel volere ciò che si fa, motivandolo e mostrandosi coerenti anche quando l’effetto è gravoso o penalizzante. Essere liberi non poggia, come spesso disinvoltamente si crede, sull’assenza di costrizioni, di condizionamenti, di norme: è, al contrario, un contenitore di azioni degne, di scelte maturate, di assunzioni di responsabilità. Non casualmente Thomas H. Huxley ebbe a dichiarare che «le difficoltà più serie di un uomo cominciano quando egli è libero di fare ciò che vuole», alludendo, appunto, alla circostanza che è più impegnativo esercitare la libertà che conquistarla. Insomma, essere liberi significa essere consapevoli «che le credenze, le nostre e le altrui, sono troppe per consentirci un atteggiamento noncurante quando arriva il momento di una scelta responsabile; significa anche sapere che niente e nessuno può liberarci dalla responsabilità per le conseguenze della scelta. E, una volta compiuta la scelta, il problema non è ancora risolto una volta per tutte, per cui non è il caso di allentare la vigilanza e mettere a riposo la propria coscienza» (Z. Bauman, Il disagio della postmodernità, Milano, Bruno Mondadori, 2002, p.259).

La responsabilità, dunque, è indissolubilmente intrecciata al disagio della scelta. Del resto, è solo attraverso la lotta contro la nozione di unicità che nasce il soggetto morale, ossia colui che si assume la responsabilità delle proprie azioni e costruisce autonomamente il senso della propria esperienza e della propria identità. È ancora Bauman a precisare che il consenso e l’unanimità delle opinioni preannunciano la tranquillità del cimitero dove la responsabilità, la libertà e la sovranità dell’individuo esalano il loro ultimo respiro.

Anche la responsabilità, va da sé, non è esente dal rischio di errori e valutazioni sbagliate e può intrappolare nella miriade dei tanti “possibili” rinvenibili nella quotidianità. Ciononostante, è proprio questa cornice fragile e polifonica, timbrata dalla volubilità  dei principi regolativi in cui c’è sempre meno spazio per deleghe morali ad agenzie sovra-individuali, che può dare visibilità al piano della libertà e della responsabilità morale, ossia a quel tipo di mondo sociale che poggia sull’impegno etico dei suoi membri piuttosto che su un sistema di regole vincolanti che pretendono di garantire universalmente la spiegazione e la valutazione delle scelte; che educa alla consapevolezza della parzialità del proprio punto di vista; che riconosce l’autonomia individuale come non disgiungibile dall’interdipendenza con gli altri. Al proposito, vale ricordare quanto Max Weber precisava nel suo Etica dei principi ed etica della responsabilità. L’etica dei principi  -chiariva- fa riferimento a principi assoluti a prescindere dalle conseguenze cui possono pervenire; per converso, l’etica della responsabilità guarda al rapporto mezzi-fini e alle sue conseguenze. La prima dà luogo alle espressioni fondamentaliste, la seconda poggia sulla necessità delle mediazioni per il miglior compromesso possibile.

Insistere sulla moralità del soggetto permette, quindi, di chiarire che per ricomporre intorno ad un progetto più equo la società, è indispensabile ricostruire le coscienze ripartendo dal singolo in quanto individuo politico e sociale. La società in sé non è morale: diventa tale se è fatta di tanti insiemi che si correggono.  Dunque: è proprio la responsabilità di scelte sempre precarie e mai definitive che può produrre in questi nostri tempi turbolenti, individualisti, mercantili e sciatti uno “stare insieme” legato dal tessuto di responsabilità mutue, laterali, oneste, fondate su un dialogo che non mira all’unanimità ma alla comprensione reciproca, non all’identità ma ai reciproci vantaggi della differenza. Questa modalità relazionale chiarirebbe che le categorie della libertà e della responsabilità sono strettamente allacciate in un percorso incompiuto. Un’incompiutezza che, per essere gestita correttamente, richiede riflessività, onestà intellettuale, coerenza e, parallelamente, non teme di imbattersi –per correggerli-  negli spazi del dubbio, dell’ansia, dell’insicurezza che orientano a rifugiarsi o nell’arbitrio che, per definizione, è il rovescio della libertà responsabile o nella sottomissione che trasferisce ad altri la libertà di scegliere (G. Colombo, p.139).

                                                                                                       

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