Questo sito utilizza i cookies per migliorare l'esperienza utente. Continuando la navigazione accetti l'utilizzo.

LA RAGNATELA DELLA VIOLENZA

Stampa

VIOLENZAdi EIDE SPEDICATO IENGO
La violenza è in realtà manifestazione di debolezza e di un basso livello evolutivo. Occorre praticare una socialità costruita su uno “stare insieme” che poggia su prassi responsabili, garantiste, consapevoli.  

                                                                                        

                                                                                                                                                                                                                                  Chi è nell’errore compensa con la                                                                                                                                                                                                                                            violenza ciò che gli manca in verità e forza
                                                                                                                                                                                                                                                      Johann Wolfgang Goethe

                                                                                                                                                                                                                            Ogni eccesso reca in sé il germe della
                                                                                                                                                                                                                            propria autosoppressione                                                                                                                                                                                   
                                                                                                                         Sigmund Freud

SPEDICATONon servono sottili argomentazioni per dimostrare che i comportamenti asimmetrici, intransigenti, illiberali, violenti si moltiplicano e circolano liberamente fa noi negli spazi della vita sociale, politica, istituzionale, pubblica e privata. Di questa forma mentis, incapace di distinguere tra fermezza e spirito di sopraffazione, coraggio e chiusura mentale, una espressione-spia è la sempre più invadente parola-rumore che dissolve, de-realizza, ammanetta nell’idiosincrasia del monologo e spinge all’angolo quella che allaccia, fa incontrare, produce reciprocità. Vistoso vettore di questa modalità comportamentale è, in particolare, il sistema mass-mediatico che – rendendo norma l’eccesso nelle sue molteplici espressioni e celebrando il culto dei duri (nelle versioni maschile e femminile) mai disponibili a discutere quanto pronti a colpire, offendere, prevaricare – socializza all’idea che la forza sia sinonimo di violenza.
Ma così non è. Piuttosto è l’esatto contrario: la violenza è una dimostrazione di debolezza, di impotenza, di frustrazione o, più correttamente, è una compensazione di ciò che non si possiede in logica, coerenza, risorse. Più di quarant’anni fa, Franco Ferrarotti ha dato della violenza una definizione stringente quanto impeccabile, almeno a mio avviso, che ritengo di proporre per esteso. Questo il passo in questione: «In principio era il verbo, la parola. Essere umani significa essenzialmente parlare, comunicare, entrare nel gioco di una conversazione. La violenza ha questo di terribile e di disumano. Nega il verbo. Interrompe il discorso. La violenza dà così scacco alla cultura come fatto umano, nella sua duplice accezione normativa e antropologica; come termine ultimo d’un lungo processo di auto-sviluppo e affinamento individuale e come modo di vita, insieme di esperienze e di idee condivise e convissute, realtà di gruppo» (L’ipnosi della violenza, Rizzoli,1980, p.9).
Questa definizione della violenza come anti-cultura va sottolineata per almeno tre principali motivi. Innanzitutto, perché rileva che il suo esercizio è una forma distorta di potere che vìola le norme non scritte della convivenza civile, annulla il piano delle garanzie collettive, colpisce l’integrità della persona, fa scomparire la comunità. Poi, perché suggerisce che la libertà dei singoli non può essere arbitrio intermittente e indeterminato, ma libertà mutua e responsabile avendo per riferimento il limite della relazione all’altro. Quindi, perché puntualizza della violenza il carattere di energia bloccata a livelli poco evoluti, qualunque siano le modalità (peraltro plurali e tra loro assai differenziate) attraverso le quali si esprime.
La violenza, infatti, dispone di molte facce: può essere difensiva quando serve per proteggersi; espressiva quando non si sanno governare le proprie emozioni; culturale quando il vuoto dei valori impoverisce il rapporto individuo/istituzioni; ricreativa quando non si trova altro modo per contrastare la noia o per creare eccitazione (come il gusto della sfida o di contravvenire alle regole). E ancora: può essere mediatica se estetizza o erotizza le prassi prevaricatrici e abusanti; estetica se impone l’adesione a modelli estremi di bellezza e seduzione che relegano nella invisibilità chiunque non sia in grado di adeguarvisi; psicologica se si esibisce sulla scena della quotidianità per corrodere, annichilire, consumare la vittima designata. Di più: può essere strutturale se promuove i processi e i meccanismi di stratificazione sociale che poggiano sulla diseguaglianza e la disparità di alcune categorie di soggetti nei confronti di altri; istituzionale se si fonda su norme consentite e legalizzate dalle istituzioni come nel caso delle leggi misogine del patriarcato; simbolica, se fa sue quelle visioni del mondo che considerano normale praticare le gerarchie e i rapporti asimmetrici e diseguali, come dimostra per esempio quel modello educativo, subdolo e corruttore (peraltro ancora vistosamente praticato in talune culture e  aree del pianeta) che fissa la realtà femminile nella gabbia della illibertà secondo lo schema della pedagogia della sottomissione. E, non certo da ultimo, può essere predatoria se coglie di sorpresa e viene tentata o consumata da persone conosciute o sconosciute in luoghi esenti da sospetto.
COLLABORAZIONEQuanto brevemente accennato precisa che la violenza è il portato di un grappolo di fattori plurali e complessi, in cui le predisposizioni e le intenzioni soggettive giocano il loro ruolo al pari dell’apprendimento e del contesto sociale. Con quale terapia la si può contrastare, viene spontaneo chiedersi?
Una risposta a questa domanda la offre la scienza, la quale insegna che nell’uomo – animale sociale e fenomeno culminante ma non concluso dell’evoluzione filogenetica – le espressioni negative, aggressive, distruttive si accompagnano a quelle positive, accomunanti, costruttive. Il che suggerisce che la violenza potrebbe essere contenuta se si condividesse quella filosofia della vita che insegna a decentrarsi da sé per entrare in sintonia con gli altri. Si tratterebbe, in questo caso, non di aspirare a concezioni ireniche del mondo umano e sociale, ma di tendere a quel modello di socialità costruito su uno “stare insieme” che poggia su prassi responsabili, garantiste, consapevoli.  Ossia, su procedure e comportamenti capaci di irrobustire quel programma innato (ma parziale) di prassi altruistiche ed empatiche che le modalità educative e sociali possono (potrebbero) amplificare insegnando ad esprimersi, confrontarsi, mostrarsi a viso scoperto, rigettando le azioni che poggiano sulla prevaricazione, sull’incoerenza, sull’ingiustizia, sulla manipolazione dell’uomo sull’uomo. Insomma: far proprio quel dettato esistenziale che insegna a diventare persone libere per sperimentare collaborativamente ciò che gli uomini possono ancora essere e diventare.
Questi suggerimenti, ne sono consapevole, appaiono verosimilmente poco o nulla praticabili negli attuali scenari sociali sempre più omologati, seriali, ignavi, disinvolti sul versante morale, culturale, comportamentale, ma si cadrebbe in una valutazione non del tutto corretta: sarebbe da tenere a mente, infatti, che nei sistemi complessi, non lineari o caotici come gli attuali anche piccoli cambi di passo possono produrre variazioni macroscopiche.