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SOCIETÀ SENZA DIMORE

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eideLo spaesamento, le interpretazioni sbrigative e liquidatorie, gli integralismi e il dominio del presente assoluto stanno   minando le fondamenta della convivenza civile. Le azioni necessarie per rivalutare l’equilibrio e la misura.

                               di EIDE SPEDICATO IENGO 

     

  Fin dal mito di Odisseo il sentimento della dimora, lo spirito della casa si riteneva costituisse una costante della condizione umana. Anche se distrutto, forzosamente abbandonato o non più raggiungibile, il luogo in cui si riconosceva la propria storia, fosse esso mobile o fisso, metafisico o empirico veniva comunque portato con sé. Ma nella dimensione del “grande adesso”, per definizione antitetico al pensiero riflessivo e al linguaggio costruttivo della storia e della  memoria, questa modalità emotiva è caduta in disuso:  la tendenza attuale è quella di vivere non secondo i canoni della “cultura del luogo” (che forniva a ciascuno il senso della continuità con il milieu di appartenenza attraverso un sistema di impegni, norme, legami affettivi) quanto secondo quelli della “cultura del tempo”, il presente assoluto che inclina in direzione di progetti di socializzazione flessibili, rivisitabili, annullabili e prassi transitorie, plurali, eterogenee.
Questo cambio di passo –è quasi superfluo l’annotarlo- compromette dalle fondamenta la struttura della stessa convivenza sociale perché disegna scenari di nomadismo culturale; moltiplica esistenze alla carta e profili sociali incapaci di dare alle cose un senso stabile; dà spazio a compagini sociali sempre più somiglianti a “comunità-guardaroba” (Z. Bauman, Modernità liquida, Roma-Bari, Laterza, 2006, pp. 235-238) che aggregano per tempi brevissimi soggetti diversi intorno a fini comuni effimeri quanto ingannevolmente socializzanti; sollecita ad assumere il comportamento dell’iper-turista che -spinto non dalla volontà e dall’esigenza di un obiettivo, ma dalla curiosità del nuovo e dell’inaspettato- si muove con indifferenza in mondi dai confini indiscutibilmente labili.
 È a questo ambiente che dobbiamo molte delle spregiudicate cancellazioni dei lasciti dell’eredità del passato come documenta, per esempio, l’assuefazione sempre più vistosa al degrado del paesaggio culturale e geografico quasi si fosse anestetizzati, incapaci di reagire agli effetti di un ordine cannibale che, oltre a devastare l’ambiente, produce spaesamenti, integralismi reattivi, processi di de-identificazione (A. Ciccozzi, L’assuefazione al degrado paesaggistico, in “Domus”. Le città dell’uomo, novembre 2014, pp. 46-47).
In sintesi: la dilatazione della cultura del tempo, diversamente dalla cultura del luogo, rischia di far collassare la società come progetto e come idea. Perdere le informazioni tramandate nel corso dell’evoluzione culturale significa, infatti, non solo mettere fuori squadra il processo cognitivo dell’adattamento che poggia sull’equilibrio dei principi di stabilità e di mutamento, ma anche fertilizzare l’humus per micro-logiche costantemente revocabili, ideologie precarie, insidie demagogiche, progetti illiberali, malintese libertà, assenza di garanzie.
  Per inciso: se produce inquietudine il comportamento di chi si muove all’interno dei propri tic e delle proprie abitudini nella ripetizione passiva di schemi comportamentali tramandati (la logica tolemaica è l’antitesi dello sviluppo e di qualsivoglia espressione di crescita personale, sociale e civile), altrettanto inquietante è il comportamento di chi fa sua la ricerca del sempre nuovo e diverso che fa annegare in un indistinto, infecondo Io sociale, incapace di misurarsi con l’imprevedibilità della storia e del mondo screziato dell’oggi. Dalla supponente ignoranza dei primi e dalla sconclusionata arroganza dei secondi bisogna, dunque, imparare a guardarsi: gli uni perché si chiudono al divenire della storia, gli altri perché rischiano di compromettere lo stesso significato dell’impresa sociale, strattonandola con segnaletiche e sensi di marcia numerosi quanto plurali; ed entrambi perché ignorano che solo l’equilibrio e la misura possono garantire rapporti e intese comuni, condivise, propositive.
A questo punto del discorso viene logico chiedersi quali azioni possano essere intraprese per contrastare il tempo dello spaesamento, dell’ucronia, delle interpretazioni sbrigative e liquidatorie, dell’appiattimento delle presenze storiche cui ci stiamo progressivamente abituando. Se l’obiettivo è quello di tendere in direzione di percorsi, espressioni e prassi di convivenza al rialzo o, meglio, se lo scopo è riabilitare il significato dell’uomo come ente intenzionale, teleologico, organizzatore del senso delle cose e di sé stesso, l’operazione si fa indubbiamente complessa ma non impossibile.
Si potrebbe cominciare, per esempio, con il contrapporre criteri d’ordine riflessivi e organizzati al quadro di termodinamica sociale che dà spazio alla logica dissipativa e al gioco dei contrari. Si potrebbe iniziare a prendere le distanze dal quadro socio-culturale che ha radicalizzato la spirale autoreferenziale e auto-protettiva (dal fiato e dalla vista corti) della politica, cancellato il senso della storia, sbriciolato quadri conoscitivi ed interpretativi, celebrato il profilo di soggetti senza struttura. Si potrebbe riscoprire la funzione del pensiero logico-razionale indispensabile per riflettere sui costi dell’attuale modernizzazione senza progetto. Si potrebbe iniziare ad investire risorse su sistemi formativo-educativi coerenti, all’occorrenza anche intransigenti, se utili a contrastare i pressappochismi, le irragionevolezze (G. Sartori, Homo videns. Televisione e post-pensiero, Laterza, Roma-Bari, 1997, p.112) e certi luoghi-caricatura dell’istruzione di massa. Si potrebbe rimuovere la tendenza a ritenere virtuosa l’ignoranza, quasi fosse una sensibilità superiore, «un esprit de finesse che ci libera dalla grettezza dell’esprit de géométrie, dalla aridità della razionalità» (Idem). Si potrebbero rispolverare quei vocaboli che vivono da troppo tempo una situazione di scarsa o nulla cittadinanza nella contemporaneità -quali regole, responsabilità, fiducia, lealtà, coscienza, onestà intellettuale- senza i quali è impossibile produrre convergenze e azioni in direzione della sostenibilità sociale e del bene comune.
Ma, a seguito di queste riflessioni, l’inevitabile domanda è: c’è al momento una qualche volontà politica e sociale di agire in tale direzione?   

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