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 NewsLetter 

Blog collettivo fondato e coordinato da Nando Cianci - Anno VIII   -  2024

DOVE È FINITO IL LUOGO DEL SOGGETTO?

eide Il piano individuale può saldarsi equilibratamente a quello   sociale. Senza farsi cullare dal conformismo e dagli   streotopi. Per ricomporre la società intorno ad un progetto.

di EIDE SPEDICATO IENGO

 

 

 

È difficile negarlo: l’altra faccia di questa nostra società dinamica, complessa, ad alta tecnologia, artefice di incredibili progressi scientifici dà sempre più spazio all’infantilismo di massa, all’adultescenza mentale protratta, al conformismo diffuso, al dionisiaco scomposto e generalizzato, all’analfabetismo etico, al disincanto politico, alla deperibilità del sapere, all’invadenza delle esperienze mediate. Queste espressioni di pratica sociale che invariabilmente colonizzano i luoghi del soggetto, sembrano costituire tratti condivisi quanto diffusi quasi delimitassero una regione metafisica non correggibile. Dato questo quadro, viene da domandarsi se la soggettività non sia che una forma invecchiata e patetica, un relitto agonizzante senza senso e senza funzione del passato, compressa –com’è- nello spazio tributario di una cultura standardizzata, opaca, routinizzata; oppure se il processo di autodeterminazione costituisca per l’individuo un’operazione troppo costosa e difficile da gestire; oppure ancora –ma sarebbe molto triste- se questo è il prezzo che si deve pagare per vivere in una società scientificamente e tecnologicamente avanzata.

Indubbiamente, assumere atteggiamenti convenzionali e conformistici, utilizzare la scorciatoia dei pregiudizi e degli stereotipi, rifugiarsi nella nicchia dei luoghi comuni convalidati dal metro delle semplificazioni è assai meno impegnativo e costoso che esercitare la propria coscienza ed esprimere la propria individualità. Ed è assai meno costoso e impegnativo soprattutto in tempi e scenari come gli attuali che, qualificati da forte termodinamica sociale, sono spazio di ordine e disordine, dispersioni e aggregazioni, dinamismi e permanenze, valori e disvalori, senso e nonsenso. In tale cornice sociale non è difficile, né inverosimile perdere ogni veduta sintetica, delegare ad altri il proprio cammino esistenziale, assumere atteggiamenti gregari.

Questo quadro sociale (in cui la riflessione critica non pare godere di stima collettiva) non è, ovviamente, un fenomeno dell’oggi. Per esempio, già nel 1930 -quale espressione dell’avvento delle masse sulla scena sociale, della civiltà industriale, della società democratica- José Ortega y Gasset nel suo La rebelion de las masas, descriveva l’esemplare spersonalizzato e sproblematizzato dell’uomo-massa, banale replica di un tipo generico eguale a tanti altri, compiaciuto di sé, puerile nel proprio regime psichico, dozzinale nei gusti, lontano da inquietudini, disponibile ad allinearsi al pensiero altrui senza troppe resistenze. Nello spazio culturale degli Stati Uniti, vent’anni dopo, nel 1950 David Riesman nel suo La folla solitaria, rilevava la presenza dell’uomo eterodiretto: duttile, flessibile, superficiale, «malleabile, fino all’impersonalità, socievole fino all’anonimia» (R. Cantoni, Illusione e pregiudizio, Milano, Il Saggiatore, 1967, p. 255), reperibile in ambienti, classi e ceti diversi e, al pari dell’uomo-massa, ingranaggio di un sistema ed esplicita antitesi del tipo umano individualizzato, teso al raggiungimento di un proprio equilibrio personale.

Dunque, il grande fenomeno storico della democrazia, dell’industrializzazione, della modernizzazione, della tecnicizzazione della società, accanto al potenziale di risorse offerto dall’ingresso di grandi masse di uomini sulla scena sociale, sembra aver accolto e accogliere tuttora (forse addirittura amplificandolo) anche quel suo lato d’ombra rappresentato dal disimpegno per il gusto della critica e del dubbio. Del resto, pensare che i principi organizzativi di una società avanzata sul versante scientifico e tecnologico possano produrre automaticamente incremento di razionalità e di evoluzione sociale è pura ingenuità o, meglio, è un pregiudizio dal quale è d’obbligo guardarsi se ci si vuole confrontare, con un qualche successo, con l’imprevedibilità della storia e del mutamento sociale. Per questo, non deve stupire se le silhouette dell’uomo eterodiretto e dell’uomo-massa abbiano stabilizzato i loro profili precisamente all’interno di questa compagine sociale e continuino a godere di buona salute anche nel millennio appena iniziato attraverso la presenza di numerosi loro cloni, quali l’homo videns, l’homo insipiens, l’homo zappiens, l’homo interneticus.

Dato, comunque, per scontato che le società antidemocratiche e scientificamente arretrate presentano risvolti assai peggiori della spersonalizzazione e del livellamento socio-culturale, e dato altresì per scontato che nessuno può sottrarsi alla pressione dello “spirito obiettivo” e della “coscienza collettiva” del tempo in cui si vive, non altrettanto scontato ci sembra l’interesse a promuovere cambi di passo in direzione migliorativa dell’Io sociale di cui ciascuno di noi è inevitabile segmento. Nello spazio della ineliminabile complementarità tra individuo e gruppo e anche se i tempi remano contro, è possibile la riflessione individuale differenziata e prendere le distanze dai fattori inquinanti che sfilacciano il tessuto quotidiano.

Quale, dunque, la strada da imboccare per promuovere nuove, più elevate ricomposizioni sociali? E come saldare equilibratamente i piani del sociale e dell’individuale? Non certo vagheggiando il ritorno ad una società élitaria nelle sue prassi, nei suoi gusti, nelle sue tendenze; né chiudendosi nella nicchia del proprio Io privato esclusivistico ed escludente; né invocando interventi di ingegneria sociale (verosimile anticamera di programmi squallidamente burocratici); né rifiutando la società di cui siamo figli, quanto partecipando alle sue espressioni più civili, seguendo la grammatica comportamentale della società aperta, creativa, progressiva (R. Cantoni, op. cit. p.262).

Per ovviare al rischio di intrappolarsi nella ragnatela delle prassi deteriori e contraddittorie dell’oggi bisogna (bisognerebbe) imparare a praticare, come suggeriva Carl Gustav Jung, l’individuazione, ovvero quel processo di definizione di sé e di maturazione psichica, culturale e sociale che si inscrive in un ideale educativo teso ad adempiere alle finalità collettive dell’uomo. Saper valorizzare le proprie originali possibilità all’interno delle norme sociali, non disperdere le proprie energie, dare un senso alla propria esistenza, orientare il proprio fare per rivitalizzare i confini del vivere civile, significa contribuire al miglioramento dello spazio sociale in cui si vive e, parallelamente, attivare più evolute ed equilibrate coesioni collettive. Per ricomporre la società intorno ad un progetto è indispensabile, insomma, ricostruire le coscienze e ripartire dal singolo in quanto individuo politico e sociale. La società in sé non è morale: diventa tale se è fatta da tanti insiemi che si correggono, ed è autenticamente autonoma quando è consapevole della circostanza che non esistono significati garantiti, verità assolute, norme di condotta preordinate. Di qui la necessità di aver chiaro che qualsiasi «livello di sicurezza la democrazia e l’individualità possano acquisire dipende non dal combattere la contingenza e l’incertezza endemiche della condizione umana, ma dal riconoscerle e dall’affrontarne le conseguenze a viso aperto» (Z. Bauman, Modernità liquida, Laterza, Roma-Bari, 2002,p.252). Niente, in questo caso, è meno innocente del laissez-faire e dell’apologetica del presente nella sua complessa fenomenologia prescindendo da qualsivoglia sua lettura critica.

Pertanto, sarebbe da auspicare che a questo nostro tempo erratico, instabile e sfilacciato seguano luoghi fisici, etici e culturali in cui le grandi ragioni possono di nuovo avere udienza per promuovere il valore della responsabilità e di pensare in proprio.

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