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LE TRADIZIONI AL TEMPO DI FACEBOOK

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LIBRO LIALia Giancristofaro, Le tradizioni al tempo di facebook. Riflessione partecipata verso la prospettiva del Patrimonio Culturale Immateriale, Casa Editrice Rocco Carabba, 2017, pp.197,€ 18,00
Recensione di EIDE SPEDICATO IENGO

   In scenari in cui le multinazionali mediatiche del sapere e della conoscenza mirano a ridurre la cifra delle singolarità culturali e a globalizzare menti e saperi attraverso la penetrazione-invasione dei loro prodotti di consumo e dei loro consumi culturali, cresce non per caso, nel mercato delle informazioni, anche la domanda di credenze, riti, tradizioni. Soprattutto in occasioni delle feste calendariali più importanti dell’anno, proliferano sul tema ricche e particolareggiate guide ad opera di quotidiani regionali e di blog per turisti che, com’è intuibile, trasformano in occasione di svago o in prodotto di marketing ciò che originariamente alludeva ad un intricato universo simbolico. Documenta questa valutazione, per esempio, il riferimento costante alle specialità gastronomiche (le più spendibili sul mercato del loisir) le quali, tuttavia, assumono un significato assai differente dalle forme collettive di consumo del cibo nelle comunità tradizionali, come dimostra, per esempio, la “panarda”, banchetto serale e notturno a devozione di sant’Antonio Abate, san Sebastiano o altro santo, che affratellava i piani del sacro e del profano, omaggiava il santo protettore, celebrava la convivialità, rinviava a cosmogonie simboliche rinsaldando i vincoli di solidarietà di gruppo (E. Giancristofaro, Tradizioni popolari d’Abruzzo, Newton Compton, Roma, 1995).
     Lia Giancristofaro, in questo suo denso e articolato saggio, indaga con puntigliosità il quadro delle connessioni tra le nuove tecnologie e la trasmissione delle espressioni cerimoniali della tradizione, allestendo un’interessante proposta di antropologia clinica. Ovvero, di diagnosi delle prassi di adattamento culturale seguite al connubio tra tradizione orale e cultura di massa; e di terapia per orientare singoli e comunità a ridiscutere il loro rapporto con i lasciti dell’eredità del passato; avvicinare nuove modalità di conoscenza sul significato delle attività espressive popolari; reimpostare, attraverso l’allestimento di precisi progetti collettivi, anche il vocabolario dello sviluppo locale: spiegando, per esempio, come un’espressione storica della diversità possa tradursi in fattore di sviluppo sostenibile o, addirittura, in patrimonio culturale intangibile in opposizione alle finzioni e ai rifacimenti della tradizione a fini turistici e di consumo o di imbalsamazione identitaria.
     I risultati di questa attenta indagine qualitativa (che analizza le attività espressive di rievocazione del passato in alcune comunità abruzzesi attraverso l’osservazione diretta e la rubricazione di informazioni attraverso il web) confermano la sopravvivenza della tradizione negli spazi contemporanei attraverso una prevalente modalità: quella che, puntando sulla spendibilità dell’evento da rievocare nella divulgazione mediatica, dà luogo ad una fiera di intrattenimento che, per un verso, banalizza e disperde le pratiche e i significati della tradizione convertendoli in espressioni prive di connotazioni etiche, simboliche, immaginative; e, per un altro verso, moltiplica la tendenza al radicalismo degli atteggiamenti formali riferiti al passato. Nell’uno e nell’altro caso (tranne pochi esempi di segno diverso) ne derivano procedure e protocolli formalizzati e ripetitivi di azioni che, dovendo rispondere alle esigenze della comunità fittizia degli spettatori, investono molte risorse nella scenografia dell’evento, ma non altrettante nella cura dei contenuti simbolici del rito, da cui una fiction senza ethos, come precisa a ragione Lia Giancristofaro.
     Insomma, le feste popolari, «portano i segni della flessibilità, della negoziabilità e di una partecipazione nuova, quella dello spettatore, che interpreta il rito come uno strumento in grado di fornire emozioni. È per emozionare gli spettatori che gli attivisti indossano il travestimento cerimoniale che ha l’obiettivo di imitare materialmente il passato. Del resto, le esperienze fortemente connotate dal punto di vista estetico ed emotivo sono ricordate meglio e per un tempo più lungo. Le cerimonie contemporanee creano una sbornia emozionale la quale, grazie anche alla circolazione telematica delle immagini, persiste nella mente di tutti i partecipanti» (p.110).
     A questo punto del discorso sorge spontanea una domanda: queste modalità cerimoniali possono ragionevolmente definirsi una traduzione rinnovata della tradizione, quantunque ossequiente alle esigenze degli attuali scenari mediatici? Ossia, sono l’espressione (seppur ri-visitata) di un patrimonio culturale ancora vitale, oppure alludano ad altro? A mio parere, le forme di ritualizzazione raccontate nel testo sembrano rinviare -più che ad una rilettura e riproposizione consapevole della tradizione- allo schema di quel pensiero sociale che -non sapendo definire nuove collocazioni ideologiche e valutative di sé e della propria cifra di organizzazione collettiva, né riprogettare le tessere della propria eredità culturale che verosimilmente ha dimenticato o, addirittura, cancellato dalla propria agenda etica, ideologica, sociale- segue le mode del momento, adeguandosi allo stile dissipativo dell’oggi.
     Quanto appena segnalato induce a precisare il significato di tradizione: operazione che l’Autrice fa con cura attenta ripercorrendone gli approcci interpretativi, il processo di de-contestualizzazione da cui è stata spesso segnata, il ruolo compensativo che ha svolto in occasione dei momenti di crisi esistenziale di singoli e gruppi, le nuove prospettive che mirano ad educare le comunità patrimoniali ad identificarla nelle proprie capacità costruttive, cooperative e progettuali, aggirando la trappola dell’esclusivismo, della commercializzazione e della musealizzazione,
     Come va letta, dunque, la tradizione? Ad evitare equivoci, va chiarito che la tradizione è un dispositivo generativo di azione sociale; tutt’altro, dunque, che una realtà stabile e strutturata che essenzializza soggetti o gruppi. Nasce, infatti, socialmente e si precisa e definisce attraverso innesti, cessioni, mescolamenti. Pertanto, è improprio fissarla nella rigidità di uno schema; inscriverla nel sistema di un ordine immobile e primordiale; pretendere di tramandarla sigillata in un sarcofago al pari di una mummia; associarla alla metafora delle radici quasi fosse una fatalità biologica, una categoria-totem, un vessillo giustificativo per valutazioni acritiche. All’opposto, sarebbe da chiedersi se la tradizione, piuttosto che una radice che scende verticalmente nella terra, sia da intendersi come qualcosa che orizzontalmente «si affianca ad altri tratti distintivi, e con essi contribuisce a formare l’identità delle persone. Metafore orizzontali della tradizione […] avrebbero il vantaggio di farci capire che si può benissimo appartenere ad una certa tradizione senza però sentirsene prigionieri. […] La tradizione ‘orizzontale’ diventerebbe [così] una possibilità di vita da integrare con altre» ( M. Bettini, Tradizione, identità e memoria nella cultura contemporanea, in G.A.Lucchetta (a cura di), Rivedendo antichi pregiudizi. Stereotipi sull’altro nell’età classica e contemporanea, Troilo Editore, Bomba (CH), 2002, pp.11-28).
     Orientare all’immagine delle “radici” come viluppi orizzontali e, parallelamente, educare al concetto di tradizione come categoria dinamica consentirebbe di selezionare l’eredità del patrimonio storico-tradizionale nello spazio di prospettive aperte, ri-adattandolo e ri-funzionalizzandolo in direzione di proposte innovative, quantunque operate su un modello preesistente. In altri termini: per valorizzare la dimensione della tradizione di un territorio bisogna imparare a darne una lettura non tradizionale. Tale prospettiva, che permetterebbe di operare filtri e selezioni relativamente a ciò che merita di essere riprodotto e ciò che è opportuno escludere, darebbe luogo ad una sorta di filiazione inversa, rovesciando il rapporto tra passato e presente: non sarebbero più i padri a generare i figli, ma i figli a ri-vitalizzare e ri-contestualizzare il sapere dei loro padri (G. Lenclud, La tradizione non è più quella di un tempo, in P. Clemente, F. Mugnaini (a cura di), Oltre il folklore, Roma, Carocci. 2001, p. 131; R. Salvatore, Alla ri-scoperta della “autenticità perduta”: il ruolo dell’immateriale nei processi di sviluppo locale, in E. Minardi, N. Bortoletto (a cura di), Innovazioni sociali, cambiamenti nelle imprese e reinvenzione delle tradizioni: percorsi per un nuovo sviluppo locale in Abruzzo, Il Piccolo Libro, Teramo,2007, pp. 83-102).
     È all’interno di questa cornice concettuale che Lia Giancristofaro critica la proliferazione di feste senza simboli, selezionate in base alla loro capacità di rispondere a strategie d’immagine e di comunicazione; il loro bulimico consumo piegato disinvoltamente alla logica del mercato; gli imbrogli culturali che ne derivano; l’assenza di una politica culturale sul tema. Di qui la puntualizzazione che lo spazio dei beni della tradizione va molto al di là della loro pianta: perciò, l’eredità immateriale di un luogo (come si accennava) può contribuire anche a reimpostare il vocabolario dello sviluppo in alternativa alle prassi che consegnano ambienti e culture ad automatismi anonimi e impersonali che interrompono il legame fra gli uomini, i paesaggi, le storie, le memorie.
     Queste pagine invitano, insomma, ad avvicinare in modo nuovo e propositivo la realtà e i quadri del patrimonio tradizionale, vuoi per impedire che le comunità locali smarriscano la propria ombra e si trasformino in spazi di schiuma, incapaci di riconoscere i segni delle proprie carte culturali; vuoi per sensibilizzare ad una nuova visione dell’eredità immateriale locale, da intendersi come palestra di azioni e tutela degli stili di vita sostenibili che storicamente si sono manifestati nel territorio.
     Va da sé, precisa Lia Giancristofaro, che l’alfabetizzazione a questa nuova lettura del paesaggio culturale richiede un accrescimento di responsabilità per le comunità di eredità, per le istituzioni e per i singoli cittadini, nonché l’attivazione di seri interventi su almeno tre versanti. Su quello storico-conoscitivo, in primo luogo, per interrompere quelle pratiche insipienti e sciagurate, volte ora a demolire ciò di cui si è perso il significato, ora a progettare outlet che imitano malamente la struttura di un dato della tradizione. Quindi, su quello educativo per fare i conti con i repertori della memoria, guardarsi dall’invadenza omologante dei processi globalizzanti, imparare a dialogare con la Storia. Su quello politico,infine, per elaborare strategie sociali connettive e convergenti fra le istituzioni e le realtà locali, mettere a tema la logica della co-progettazione partecipata, promuovere azioni sostenibili, coerenti ed efficaci per valorizzare e tutelare l’ambiente in cui vi vive.

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